Spiegare la stabilità dei nuclei atomici più pesanti dell’idrogeno è sempre stato molto difficile, specie assumendo che fossero composti solo di protoni, i quali si respingerebbero a vicenda avendo carica elettrica uguale.
La nascita del neutrone
Nel 1920 Harkins e indipendentemente Rutherford previdero l’esistenza di una particella ignota, elettricamente neutra, che dovesse mantenere uniti i protoni nel nucleo: era il neutrone. James Chadwick scoprì questa particella nel 1932. L’esistenza del neutrone risolveva il problema della disparità tra il numero atomico di un atomo (cioè il numero di protoni del nucleo) e il numero di massa (il numero di protoni e neutroni).
Questa scoperta rese possibile sviluppare una teoria per le reazioni di fusione, e nel 1939 il fisico tedesco Hans Bethe (e, indipendentemente, Carl von Weizsacker) determinò i meccanismi di fusione nucleare che convertono l’idrogeno in elio nel Sole e nelle altre stelle. Per le stelle di massa ridotta, come il Sole. Bethe mise a punto il meccanismo protone-protone: i protoni (nuclei di idrogeno) all’interno del Sole collidono tra loro per via della temperatura elevatissima. Inoltre un fenomeno quantistico, il cosiddetto effetto tunnel, contribuirebbe a superare la repulsione elettrostatica tra i protoni. I nuclei di elio che si formano. composti da due protoni, non sopravvivrebbero, ma Bethe scoprì che se uno dei protoni si trasforma in un neutrone — reazione nota col nome di “decadimento beta” — i nuclei, formati da due protoni e due neutroni, non si decompongono. I nuclei di elio risultanti sarebbero più leggeri di quelli di idrogeno che li hanno formati, e la differenza di massa si converte in calore. Questa era comunque solo una teoria, e sulle prime pareva che non sarebbe mai stato possibile scoprire se questa ipotesi di meccanismo protone-protone fosse corretta.
L’apparizione del neutrino
Ma i fisici nucleari ebbero un colpo di fortuna. Apparve in scena una novità: il neutrino. l fisici avevano scoperto che c’era una particella misteriosa che portava via energia in certi tipi di radioattività, come il decadimento beta; in questa reazione un neutrone di un nucleo atomico può trasformarsi in un protone ed emettere una particella baia (un elettrone).
L’energia di questa particella beta non era costante: qualcosa doveva sottrarle energia. Il fisico austriaco Wolfgang Pauli, uno dei pionieri della meccanica quantistica, ipotizzò nel 1931 che ci fosse una particella ignota, priva di massa, emessa insieme alla particella beta. Il fisico nucleare italiano Enrico Fermi la battezzò neutrino, nel senso di “piccolo neutrone”. Ma a differenza dei neutroni, i neutrini non interagiscono quasi per niente con la materia. La loro esistenza fu confermata sperimentalmente solo nel 1955: negli anni successivi gli scienziati scoprirono che le reazioni nucleari che emettono elettroni, particelle iati e muoni producono anche neutrini di diversi tipi o “sapori”, detti rispettivamente neutrini elettronici, tautonici e muonici.
Guardare dentro al sole
Si riteneva che un tipo di decadimento beta, quello che trasforma i protoni in neutroni ed è necessario per formare nuclei di elio, si verificasse in una reazione a catena all’interno del Sole: si dovrebbero così formare neutrini in gran quantità. Raymond Davis, un chimico fisico americano, propose nel 1955 che – dato che questi neutrini non vengono fermati quasi per niente dagli strati esterni del Sole – catturandoli possiamo “vedere” l’interno del Sole. Il fisico statunitense John Bahcall aveva calcolato che ogni secondo attraverso una nostra unghia passano 65 miliardi di neutrini emessi dal Sole, ma menarli è un altro paio di maniche. Nel 1967 Davis completò un enorme rivelatore di neutrini, costruito a 1500 metri sono terra per schermarlo dalle radiazioni così che, nella miniera d’oro dismessa di Homestake, nel Dakota del Sud. Era composto da un serbatoio che conteneva quasi 400mila litri di un liquido per il lavaggio a secco, che contiene gli atomi di cloro che devono catturare i neutrini. I primi risultati, pubblicati nel 1968, furono misteriosi: Davis aveva rilevato solo un terzo degli atomi radioattivi di argon previsti da Bahcall. Per più di vent’anni Davis continuò caparbiamente a modificare e affinare il suo rivelatore di neutrini, ma invano: i suoi risultati continuavano a fallire di un fattore
pari a tre. II problema divenne noto come “deficit di neutrini solari” e fu chiaro che il rivelatore era difettoso o i calcoli di Bahcall erano sbagliati. Nel 1967, prima che Davis pubblicasse i risultati del suo rivelatore di neutrini, Bruno Pontecorvo aveva previsto che i neutrini solari potessero cambiare tipo (sapore). L’esperimento di llomestake rilevava esclusivamente i neutrini elettronici, mentre Pontecorvo sosteneva che una buona parte dei neutrini elettronici – quelli prodotti all’interno del Sole – si trasformava in neutrini tauonici o muonici mentre procedevano verso la Terra. Dato che questi neutrini non interagiscono con gli atomi di cloro nel rivelatore di Davis, il numero di neutrini individuati sarebbe stato ridotto. Negli anni successivi il cosiddetto deficit di neutrini solari tu scoperto anche in altri rivelatori sotterranei di neutrini. I fisici cominciarono a mettere seriamente in dubbio i calcoli di Bahcall, che fu finalmente riabilitato nel 2001, quando si resero disponibili i dati del Sudhury Neutrino Observatory (SNO), due chilometri sotto terra in una miniera di nichel nell’Ontario, in Canada. L’SNO usava un enorme serbatoio di acqua pesante con cui si potevano rilevare tutti e tre i tipi di neutrini. Non solo confermò i risultati di Bahcall sul flusso di neutrini, ma dimostrò anche che i neutrini sono dotati di massa. Appena 71 anni dopo che furono ipotizzati, conosciamo i neutrini a sufficienza per capire come il Sole ci rifornisce di energia.